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Luciana Littizzetto da: Sola come un gambo di sedano ~ Mondadori

 

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4 I saputelli

   Una categoria umana da evitare accuratamente? 
Più delle spine nel branzino? 
   
   Quella dei Dotti Medici e Sapienti. Quelli cioè che la sanno e te la spiegano sempre.

Tu comunichi una notizia che può variare dall’appuntamento col gommista all’arrivo della sonda Cassini. E loro? La sanno già. Anzi. Te la spiegano meglio e nel dettaglio.
 
   Tu prepari il sugo e loro intervengono con pareri e consigli. 
Tu racconti agli amici una barzelletta e ti interrompono continuamente per puntualizzare. 
  
   Tu chiedi l’ora e questi partono dal funzionamento della meccanica interna dell’orologio. 

   Tu domandi che tempo fa e loro te lo dicono partendo dal Big Ben.

   I Sapientini sono quelli che se devono comperare un paio di scarpe mandano alla neuro i commessi. 

Io ci ho avuto un fidanzato così. 

   Il castigo del cielo acquistava le scarpe e poi le rodava in casa tutto il giorno successivo per verificare l’effettiva comodità del prodotto. 
   Ma per non sporcare la suola foderava il pavimento coi fogli di giornale. 
   Io entravo in casa e dicevo: «Dài il bianco?». No. Provava le scarpe. 

E poi mi chiamava «Carissima». 
   
   Io uno che mi chiama carissima lo prenderei a sprangate.

   Carissima dillo alla tua capoufficia, alla tua zia Giunchiglia di Loano, alla tua maestra di cha cha cha, ma non a me che dovrei essere la tua amatissima, semmai...

Ma dove i Dotti Medici e Sapienti danno il meglio? 

Al ristorante, ovvio. 

   Prima cosa chiedono con minuzia gli ingredienti delle specialità della casa e poi dibattono del perché e del percome il cuoco cucini il tal piatto in tal modo, mentre loro lo cucinerebbero in un altro. 

E poi ordinano sempre i piatti senza qualcosa. 
   E di solito senza qualcosa di fondamentale. 

   Il risotto alla milanese senza zafferano, il carpaccio ben cotto senza parmigiano e la pizza marinara senza aglio. 

   Insomma.., a gavu ‘lfià [levano il fiato].

Che ci facciamo con gente così? 
   Al massimo una partita a Trivial Pursuit.
 
   Perdendo, naturalmente.

 

 

3 Io e Rocco Siffredi

   Cari miei, ci son momenti della vita che lasciano un segno.

Altri ancora una cicatrice. Per me è andata proprio così.

     Avete presente quella trasmissione di RaiTre che si chiama Milano-Roma ?

Quella dove due tipi fanno il viaggio insieme parlottando per ore del più e del meno? Bene.

Anch’io l’ho girata. E sapete con chi?

Chi potevano affiancare a una duchessa qual io sono?

Rocco Siffredi, che domande...!

Il più famoso attore porno italiano. Un totem erotico locale.

Certo. Con me.  Che non ho nulla che ricordi anche solo vagamente Ramba Malù.

 

Rocco Siffredi pare sia un fenomeno della natura.

Non si offendano i maschietti, ma si parla di misure ai confini della realtà.  Roba che potevamo girare i remake di Rocco e suo fratello o al limite di Uccellacci uccellini.

Ventisette centimetri è tanto.

È come una mensola del tinello, di quelle che ci appoggi sopra le piante grasse.

Un promontorio della paura. Cape Fear.

  Con lui al fianco mi sentivo serena come l’ultima moglie di Barbablù.

Dicono che in situazioni imbarazzanti bisogna sforzarsi di essere se stessi.   Ma se non so neanche io chi sono...

 
Gli chiedo: «Ma come fai quando devi rigirare la scena? Lo riponi nell’apposita vaschetta salvafreschezza?»   Fa finta di non sentirmi.

   Lo incalzo. «Quindi sei un libero professionista... non smetti mai... ti porti anche il lavoro a casa... »  Silenzio.

«Usi il Viagra? La pillola che fa diventare dure anche le lumache?

Mi han detto che i panettieri non la prendono perché fa diventare duro anche il pane...»   Non ride.

 

Povero Rocky horror... mi gira cento porno all’anno, sarà stanco come una bestia.  Magari guido un po’ io.

  Un paio di centimetri mi separano dal suo grande cocomero.

O come lo vogliamo chiamare? Cannone di Na­varone? Stelo di giada? Nibelungo? Stecco ducale? Sturm und Drang? Sacro Aspromonte?

  Gli dico: «Lo conosci quel film porno con Gilbert Bécaud e Gilbert Belcul: Chi ha spompè la Pompadour?».  Dorme.

Io faccio quell’effetto lì agli uomini.


2  Maschi distratti, maschi pignoli

     Da una recente indagine sociologica condotta da me stessa su di un campione strettamente personale risulta che la specie umana maschile si può verosimilmente suddividere in due grandi sottogruppi: i maschi distrat­ti e i maschi pignoli. 

Quali i migliori? Difficile dirlo.

  Partiamo dai primi: gli sbadati, gli svaniti, i cloni di Mister Bean.

Non avrebbero tanto bisogno di una fidanzata quanto di un’insegnante di sostegno.

 Perdere e dimenticare è l’attività principe delle loro giornate.

    Vanno a comperare il giornale e lo lasciano all’edicola, tolgono l’autoradio ma la sistemano sul tettuccio, hanno il telefonino ma si scordano di accenderlo, perdono le chiavi e anche la copia, il portafoglio e anche la patente, cambiano la batteria dell’auto una volta al mese perché dimenticano sistematicamente i fari accesi e tamponano spessissimo perché quando guidano fanno qualsiasi altra cosa fuorché guidare. E poi si fanno male continuamente. Si inciampano, si slogano, si sbucciano, si tagliano... roba da quarta elementare.

 

I maschi pignoli non sono certo meno faticosi. Tutt’altro.

Cronometrano quanto ci mettono da casello a casello, stabiliscono con precisione millimetrica il consumo della loro auto che di solito è un cartone, impilano gli asciugamani per sfumatura di colore, lucidano gli angoli delle scarpe con lo spazzolino da denti, compilano gli specchietti delle agende dei soldi in entrata e soldi in uscita segnando anche lo stick e il biglietto del tram, tengono a memoria la cadenza del ciclo mestruale della fidanzata e scrivono una S sul calendario per ricordarsi i giorni in cui hanno fatto sesso. Sempre molto pochi.

 

Il massimo è il marito della mia amica Elvira. Pignolo e maniaco della pulizia. Mentre mangiamo, lui lava già i piatti. Quelli che stiamo usando. Quando alla moglie incinta si ruppero le acque, invece di tranquillizzarla la inseguì con lo spazzolone del Mocio Vileda.

 

«Però mi piaci, che ci posso fare? Mi piaci» cantava Alex Britti. Giusto. Ma è giusto anche quello che mi ha detto l’altro giorno una mia amica napoletana: «Se metti ‘o rhum in coppa a ‘nu strunz non diventa ‘nu babà!».

 

1 Su la testa

 

   C’è un segnale inequivocabile. Un’azione apparentemente innocua. 
   Un piccolo gesto che annuncia che... ok, hai cominciato finalmente a prendere la tua vita tra le mani. 

   È quando riesci a dire al tuo parrucchiere che il taglio che ti ha fatto fa schifo. Che persino la cavia peruviana di tua cugina è pettinata meglio. 

   Che la frangia non te l’ha scalata, te l’ha mozzata come la coda di un mulo e che, per non dare nell’occhio, non ti rimane che ragliare.
 
   Che se quella che ti ha fatto è una tinta, che vada pure 
a graffitare le metropolitane di Milano. 
   Che persino le siepi di agrifoglio tremerebbero all’idea di farsi potare da lui.

   Prima o poi ci farò un libro: Lo Zen e l’arte di mandare 
a stendere il tuo parrucchiere. 

  
Devo spiegarlo io?

   I capelli di una donna sono il termometro della sua anima.

   Quando una purilla sta male, cosa fa?
 
   Va dal parrucchiere.
   Prima ancora che dall’analista. 
   Mette quel che ha di più vuoto tra le mani del coiffeur e si abbandona fiduciosa. 
   E magari, all’improvviso l’incoscienza, gli dice la fatidica frase: «Fai tu».

   Dire a un parrucchiere «fai tu» è un po’ come decidere di fare boungee jumping senza elastico. 

   Armato solo del suo ego colossale, come un boia al patibolo, lui darà mano alle forbici e taglierà. 

   Tanto. 
   Quei bei tagli asimmetrici, sfilacciati, impettinabili, portabili al massimo in sfilata a Milano Collezioni. 

   E mentre mieterà e falcerà, ti dirà: «Tesoro, sei bellissima.., ti mancano solo le ali per essere un angelo...», e tu penserai: “Ho le scapole alate, andrà bene lo stesso?”. 

   E soprattutto: “Quanto ci metterà mai un capello a ricrescere? Un mese? Un anno? Un decennio?”.

Meglio così, comunque, che scegliere l’acconciatura sfogliando quei tremendi giornali che trovi solo dai parrucchieri, stampati in una specie di segreta tipografia di categoria. 

   Un misto di teste a pera e tagli da Basil l’investigatopo.

E poi c’è il tocco finale. Una volta bastava la lacca a inchiodarti le chiome come Marion Cunningham di Happy Days.

 Adesso si va di gel, olio, schiuma, silico­ne... E così esci dal negozio che ci hai i capelli unti come dopo una settimana di influenza.

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