Domanda. Marino, so che lei parla di crisi di coscienza. Come è nata questa crisi?
Risposta. Non lo so nemmeno io. Forse era già nata quella mattina... E da quel 17 maggio, l'angoscia di aver ucciso un uomo è andata aumentando, ha scavato dentro di me, fino a diventare insopportabile.
Ma perché la sua crisi è scoppiata proprio nel dicembre dell'anno scorso, quando ha deciso di confessare i suoi rimorsi a un sacerdote?
Potrei rispondere che non lo so nemmeno io. Quando ci si convince della necessità di compiere un gesto, questo è persino indipendente dalla nostra volontà. Non c'è una spiegazione razionale del perché, a un certo punto, ho dovuto liberarmi dall'angoscia. Poteva accadere il dicembre dell'anno scorso, come in un altro periodo.
C'è qualcos'altro, in particolare, che l'ha spinta a raccontare i retroscena dell'assassinio di Calabresi?
Oltre alla mia angoscia, no.
L'angoscia ti può prendere al mattino, quando ti guardi allo specchio nel farti la barba. O in un'altra ora della giornata.
Non sai perché prende la bocca dello stomaco, ma la senti, ti fa star male. No, non ho motivi né
di odio né di rivalsa verso chicchessia.
Né, costituendomi, ho voluto scaricare le mie responsabilità su altri. Io, le mie responsabilità, me le assumo in prima persona.
Dico: ho ucciso io il povero commissario Calabresi.
Non dico che mi hanno costretto a ucciderlo.
Dico che, volontariamente, ho accettato, tant'è che quella mattina del 17 maggio ero là, in via Cherubini a Milano, volontariamente. Sapevo ciò che facevo.
Non cerco, oggi, delle attenuanti dicendo che Sofri e Pietrostefani diedero a me e a Bompressi quell'ordine.
D. Perché, prima di andare dai carabinieri e dai magistrati, lei si è rivolto a un sacerdote?
E stato un fatto casuale, due persone che si incontrano e parlano. Non c'è stata nemmeno una confessione vera e propria. E stato un discorso: un amico, il sacerdote, che ti ha appena chiesto perché ti vede sempre solo e tu senti, improvvisamente, il bisogno di confidarti perché parlando ti senti sollevato.
Non racconti le ragioni della tua angoscia, fai capire più che spiegare.
Credo che nessun uomo sappia perché ci si pente.
Forse è semplicemente il peso di certe immagini, l'uomo colpito che cade, il sangue attorno... Sono immagini che ti rimangono negli occhi e che dagli occhi entrano nella testa.
E poi le domande verso te stesso: perché l'hai fatto, perché l'hai ucciso?
Calabresi era un mostro? No, non era un mostro.
E io ero e sono un giustiziere? No, non lo ero e non lo sono: non c era, non ci poteva essere, una guerra tra me e Calabresi.
E allora, mi sono chiesto tante volte, perché è successo? Perché ho ammazzato un uomo?
Ecco, è questa l'angoscia.
E a un certo punto ho sentito il bisogno di pagare un prezzo, di rispondere in prima persona.
La sua angoscia l'aveva confidata a qualcuno?
Ne ho parlato tante volte con mia moglie. Non si può vivere anni e anni con una donna senza confidarle un segreto così tremendo. Quando mi sono costituito lei ha detto ai giornalisti che l'hanno cercata che non ne sapeva niente. Ha mentito per cautelare se stessa e i nostri figli. E forse perché una vicenda nata fra di noi doveva rimanere, ai suoi occhi, soltanto nostra.
In questi sedici anni aveva pensato altre volte di andare dai carabinieri a raccontare la sua verità?
Sì, però mai la spinta aveva superato una certa soglia.
E stato quando ho capito che, rivelando la mia colpa, mi sarei liberato, che ho superato ogni indugio.
Lei parla dell'angoscia per il delitto Calabresi, ma non fa cenno alle rapine che lei stesso ha confessato di aver compiuto per finanziare Lotta Continua. Non le dà angoscia aver fatto il rapinatore, anche se per fede politica?
Le rapine non hanno mai rappresentato un ricordo lacerante; forse perché mai era stato sparso sangue in quelle occasioni. Potevo e posso dire che era un modo sbagliato, quello delle rapine, di fare politica, di finanziare un movimento politico.
Ci ho riflettuto, ma senza angosciarmi, anche perché non un soldo di quelle rapine è finito nelle mie tasche.
Di quattrini io non ne ho mai avuti e ciò non mi pare né una colpa né una vergogna.
È l'omicidio Calabresi che invece mi ha angosciato.
E quell'omicidio che ho rivissuto tante volte, attimo per attimo.
E quando, alla televisione, vedevo le immagini di altri morti, assassinii gratuiti venduti come omicidi politici, mi dicevo: l'hai fatto anche tu.
Con Calabresi abbiamo aperto la strada all'assassinio politico.
Lei dice di averne parlato soltanto con sua moglie. Nemmeno con Ovidio Bompressi ne aveva fatto cenno?
E strano, ma evitavo di parlarne. Credevo che ci fosse un'implicita intesa a stare zitti. Avevamo entrambi la coscienza che non potevamo vantarci di quel gesto, di quel delitto.
Quanto ha influito il delitto Calabresi sulle sue scelte politiche?
Mi sono reso conto che non si poteva fare politica in quel modo, rapinare e uccidere. La politica la facevo alla Fiat, quando ero un operaio. Facevamo lotte, anche dure, ma...
Mi racconti di quella mattina del 17 maggio.
Quando Enrico, chiamavo così Bompressi, mi disse "ci hanno fatto fare una schifezza", sentii di volergli più bene perché mi aveva fatto capire che non era un killer, anche se aveva appena sparato quei colpi.
Anche lui era uguale a me, aveva compiuto come me un omicidio credendo che fosse un atto politico, ma quando abbiamo visto là, per terra, il corpo di Calabresi, ci si sono aperti gli occhi.
In quel momento ho cominciato a ragionare con la mia testa, non con quella degli altri. |