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Gemma Capra 
vedova Calabresi


La calunnia è il peggiore dei flagelli:
crea due colpevoli ma una sola vittima
Erodoto


In realtà, mio marito non era, né poteva essere altri, che uno 
degli undici funzionari dell'ufficio politico alle dipendenze del capo Antonino Allegra e del suo vice Beniamino Zagari.

Di tutti, Gigi era forse il più distante da un certo cliché anche 
cinematografico di poliziotto, sia all'italiana,sia all'americana. Intanto, per il suo modo di vestire. 
E vero, gli piacevano i maglioni dolce vita, anche se, agli amici che lo interrogavano su quella sua vistosa preferenza, rispondeva, per schermirsi, che "è per non far stirare le camicie a mia moglie". 

Un giorno che si era presentato in ufficio con un completo con sfumature lillà su una camicia rosa, e gli avevano detto che al questore sarebbe piaciuto poco, perché Guida i suoi funzionari li voleva tutti in grisaglia, con cravatta idonea, meglio se in doppiopetto, lui aveva risposto che, dopo tutto, suo suocero era Mario Capra, lo stilista che, alla fine degli Anni Cinquanta, aveva lanciato, per la moda maschile, lo slogan "Uscire dal grigio". 

E in fondo, non gli costava neppure molto: dato il suo "privilegio" di genero di Capra, poteva far man bassa nel negozio di papà.

Naturalmente c'erano cose meno effimere che lo distinguevano dai suoi colleghi in grigio, e non è detto che fossero tutte sempre positive. 
Per esempio, quasi costante motivo di frizione con il suo capo, il dottor Allegra, era il suo modo di condurre gli interrogatori.

"Smettila di farti amici i fermati", gli aveva detto una volta "di offrirgli sigarette e magari il caffè, di volere a tutti i costi entrare in confidenza con loro. Sii più duro".


Gigi tendeva a catturare la simpatia dei suoi "clienti", gli permetteva di ritrattare quel che avevano già dichiarato, di rifare i verbali più e più volte, come accadde anche con Pinelli. Potevano fumare liberamente, sospendere un interrogatorio se accusavano stanchezza, alzarsi e magari uscire a far due passi in corridoio. 
Questo era il metodo di lavoro di Gigi, ma rispondeva anche al suo temperamento, al suo tipo di approccio con la gente, curioso, umano, introspettivo, fossero pure inquisiti o sospettati. 

Per non parlare dei giornalisti, che avevano libero accesso alla sua stanza, anche qui sollevando le perplessità di Allegra: "Tu parli troppo con la stampa!".


Perciò io non riesco a perdonare coloro che, estremisti o giornalisti che fossero, conoscendo bene quel suo modo di fare così umano, lo accusarono esattamente del contrario, trasformandolo nel commissario duro, violento e torturatore che non fu mai.


Gigi credeva nel suo lavoro, nella funzione positiva che l'ufficio politico della questura aveva nella difesa dello Stato. 
Era anche ambizioso, come lo è ogni giovane normale che ama il proprio lavoro. 
"Quando sarò questore di Milano...", mi diceva, talvolta, pensando a un futuro roseo di soddisfazioni.


Tra la sua corrispondenza ho ritrovato una lettera che gli inviò da Roma, il 13 gennaio 1970, un suo vecchio amico, l'avvocato Franco Ligi: "Ho letto alcuni velenosi commenti di certa stampa contro di te. Voglio dirti la mia affettuosa simpatia e la mia gratitudine per il tuo lavoro. Mi viene in mente che una volta, molto tempo fa, ti chiesi a che cosa serviva un ufficio politico della questura in regime democratico. Tu mi desti una risposta più che soddisfacente, e solo in questi giorni ho potuto verificare quanto fosse esatta".


Una sera mi raccontò ciò che gli era capitato: era uscito all'alba per andare a trovare a casa un giovane extraparlamentare ch'era stato fermato più volte in disordini di piazza come uno degli elementi più aggressivi verso la polizia. 
Voleva parlargli a quattr'occhi, pensava che sapesse molte cose e sperava di convincerlo ad aiutarlo. Il nome di questo ragazzo non lo ricordo. 
"Abita in una povera casa di ringhiera, su all'ultimo piano", mi disse Gigi: "quando ho suonato alla porta, alle 6 di questa mattina, era già in piedi, stava lavando le lenzuola, per evitare la fatica alla madre, semiparalizzata e sofferente di una malattia agli arti. 
Ho saputo che il padre è sparito da anni. 
Quando mi ha visto, si è vergognato di essersi fatto sorprendere mentre compiva quel gesto di affetto verso la madre, quasi fosse un atto di debolezza. Di colpo ho capito il perché del suo comportamento, della sua rabbia".


Una delle domande che mi sono sentita rivolgere, in questi anni, è stata: "Ma perché suo marito non aveva una scorta?". 
In realtà, avrebbe potuto chiederla, almeno da casa all'ufficio e dall'ufficio a casa. 
Ne parlammo anche, quando maggiormente infuriava la campagna contro di lui.

Fu Gigi a decidere per il no. 
"Guarda Allegra", mi disse: "nei giorni feriali è sempre scortato, poi, la domenica va allo stadio da solo. No, credimi, non avrebbe senso". 
Io ero d'accordo con lui.
Non pensavo certo che arrivassero a ucciderlo, e lui contribuiva a infondermi sicurezza con quel suo atteggiamento sempre sereno, quel suo giocare con i bambini.


No, non ebbe mai paura. 

E non girò mai armato, così come, nei servizi di ordine pubblico, non indossò mai l'elmetto, che, pure, i funzionari avevano in dotazione. 

Possedeva una piccola pistola automatica, una Beretta calibro 6,33, credo. 
La teneva nascosta sotto le camicie, in un cassetto del comò. 
Poi non la vidi più. 

"Dov'è finita la pistola?", gli chiesi allora. 
Mi disse che l'aveva portata in ufficio.

"Perché non la tieni indosso, come i tuoi colleghi?", gli domandai.

"No, non la porto, perché non avranno mai il coraggio di spararmi guardandomi negli occhi. Se dovessero decidere di spararmi, lo faranno alle spalle. E allora avere la pistola non mi servirebbe a niente".

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Calabresi venne ritenuto giornalisticamente responsabile della morte di Pinelli - Marco Boato(1988)

 
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